Ti è mai capitatodi guardare la tv e confondere le pubblicità con i programmi televisivi? Come siamo passati da un tipo di pubblicità dove Valentina Ferragni non può uscire con i pantaloncini senza prima passare il suo rasoio venus, ad un nuovo modo di fare pubblicità che racconta la crescita di una giovane donna? Il Brand Activism è oggi una condizione necessaria per i brand che vogliono affermarsi e farsi ricordare dal proprio pubblico.
Oggi, in occasione della giornata mondiale delle comunicazioni sociali, vogliamo concentrarci su questo nuovo pilastro su cui si basano le campagne e comunicazioni di grandi marchi, da Nescafè a Nike, per analizzare di cosa di tratta. Ecco perché di seguito tratteremo di:
- Cos’è il Brand Activism e perché oggi è così importante.
- L’evoluzione del Brand Activism: dal Corporate Social Responsability al Green e Socialwashing.
- Il vero volto del Brand Activism: esempi veri e vincenti di brand attivi per le tematiche socio-ambientali.
Attenzione però, il Brand Activism richiede un interesse vero, attivo e partecipativo da parte delle aziende e brand che aderiscono. Infatti, il nuovo target di riferimento di queste iniziative è tanto sensibile e coinvolto in esse quanto suscettibile se viene ingannato da brand che in realtà si limitano a fare Brand Activism soltanto per cavalcare l’ennesimo trend di mercato.
Tra i trend degli ultimi anni, il brand activism si posiziona come quello che effettivamente ha portato i risultati più concreti quando fatto sinceramente. Noi, nel piccolo della nostra realtà, dedichiamo ogni giornata a scambiarci pareri, aggiornamenti ed iniziative utili all’ambiente ed al sociale che comunichiamo ai nostri amici e clienti, tenendone conto ed integrandoli anche nelle nostre proposte lavorative. Come facciamo?
Cos’è il Brand Activism e perché oggi è importante nel mercato.
Il Brand Activism consiste nel proporre iniziative, vere, concrete, testimoniabili e che abbiano un impatto sull’ambiente o sulla lotta contro gli stereotipi sociali, di genere o di sesso. In quest’attività l’azienda svolge un ruolo guida nei processi di cambiamento sociale oggi sempre più richiesto dalle nuove generazioni con potere d’acquisto, come dimostra lo studio di Civic Brand 2020, presentato alla Milano Digital Week, dove il 43% degli intervistati ha dichiarato di aver smesso di acquistare da un brand perché deluso dal loro comportamento dinnanzi a situazioni e temi caldi.
Adottare una posizione forte su temi di rilevanza sociale è ciò che rende un brand importante per i consumatori, infatti l’87% di essi dichiara che le aziende dovrebbero concentrare le stesse forze che utilizzano per il proprio business per migliorare le risorse ambientali. Non ci sorprende questa tendenza considerando che le generazioni più sensibili a tali iniziative sono principalmente i Millennials e la Generazione Z, i cui interessi per l’ambiente e l’evoluzione della società sono notoriamente diffusi, come possiamo vedere anche dalla maggior parte dei contenuti presenti online che sempre più difendono ogni comunità sociale e perseguono una lotta all’inquinamento in ogni attività che svolgono.
Non rimangono indifferenti neppure i soggetti dai 40 anni in su, anche se spesso non si rendono nemmeno conto di essere sensibili a quelle che definiscono “semplici pubblicità”. Ciò perché il brand activism non è nulla di rivoluzionario se non un piccolo passo verso un processo di cambiamento sociale che stiamo vivendo già oggi. Questo è, inoltre, facilitato dal malcontento diffuso, soprattutto in Italia, nei riguardi delle istituzioni e della politica. Infatti, sempre lo studio di Civic Brand, mostra che mentre il 17% degli intervistati ritiene che quest’ultimi settori non siano in grado di spronare le società a migliorarsi, ben il 24% invece ritiene che i marchi e le aziende che utilizzano il brand activism ci riescono davvero.
La prima domanda che sorge davanti questo quadro statistico è: cosa fanno, nel concreto, questi brand per essere considerati come attivisti e provocare questi cambiamenti di cui tanto si parla?
Discutiamone insieme nei commenti, hai un caso di brand activism da condividere con noi?
L’evoluzione del Brand Activism: dal Corporate Social Responsibility al Green e Socialwashing.
Occorre innanzitutto specificare che il Brand Activism non è qualcosa che nasce dal nulla negli ultimi anni, anzi è frutto di un’evoluzione delle richieste del mercato verso interessi sociali ed ambientali. Infatti, si può sostenere che questo “nuovo” trend derivi in realtà dal Corporate Social Responsibility.
Con CSR, termine magari più noto negli ambienti imprenditoriali, si indica “l’integrazione volontaria da parte delle imprese delle preoccupazioni sociali ed ambientali nelle loro operazioni commerciali e rapporti con le parti interessate”.
Tuttavia questo concetto è stato spesso abusato dalle aziende soltanto come etichetta per le proprie attività di marketing, portando ad oggi quasi ad uno screditamento del CSR, nonostante sia concettualmente simile al Brand Activism. Ad oggi, infatti, il Corporate Social Responsability è spesso visto soltanto come “attivismo di facciata”, rispetto al Brand Activism , che negli ultimi anni ha visto grandi adesioni da marchi molto noti che con le loro attività riescono ad avere un impatto sui temi socio-ambientali. Ed è qui che torniamo al punto: quali sono queste attività? Può una pubblicità considerarsi un’iniziativa?
Anche se il Brand Activism si può concepire come attivismo, occorre capire che parliamo sempre di iniziative portate avanti da un’azienda quindi non di cortei, proteste o quelle immagini che ci possono balenare nella mente. L’attivismo dei brand ha invece più a che fare con il promuovere messaggi di sensibilizzazione che vadano a far colpo sulle persone fino ad estirpare uno stereotipo sociale o pratica tradizionalmente consolidata per promuoverne una nuova, salutare e accettabile per la società di oggi.
In poche parole si tratta di influenzare, tramite la promozione di immagini, video, messaggi ed iniziative, le persone a ricreare quelle buone pratiche che possono vedere in televisione, sui siti web, cartelloni o social.
Tuttavia questo potere del Brand Activism può anche essere un’arma a doppio taglio, come abbiamo avuto modo di vedere già negli anni ’40 e ’50, ad esempio con l’incentivazione all’acquisto delle sigarette.
Questo tipo di attivismo è ciò che possiamo definire “Regressivo” in quanto non persegue davvero l’obiettivo di un’evoluzione positiva della società ma ricerca soltanto di promuovere il suo prodotto travestendolo da vantaggio sociale. Ed è proprio da queste pratiche che oggi vediamo e sentiamo parlare del Greenwashing e del socialwashing: termini dispregiativi che indicano la tendenza della maggior parte dei brand di trattare da un lato temi legati all’ambiente e dall’altro legati al sociale mentre in realtà alla base del loro business ci sono attività opposte.
Un classico esempio sono i marchi del Fast Fashion, come ad esempio Zara che utilizza etichette con scritto “Bio” e una comunicazione incentrata sulla produzione naturale quando in realtà i suoi ritmi di produzione inquinano e distruggono ogni anno diversi aspetti del nostro pianeta, posizionando il settore della moda come seconda potenza inquinante della terra.
Negli anni il pubblico ha cominciato a distinguere chi fa brand activism per il bene della società e chi per guadagnarci, reagendo in modo diverso a seconda dello scopo. Infatti sappiamo bene che oggi pubblicità che incitino al fumo, specialmente in gravidanza, non siano più accettabili e ciò proprio per la reazione di ribellione che ad un certo punto la società ha avuto nei confronti di questa comunicazione. Ciò ha permesso la strutturazione di uno schema da cui ogni azienda ha potuto rendersi conto che ormai diventare brand activist era una condizione irrinunciabile ma solo se fatto sinceramente.
Il vero volto del Brand Activism: dall’ipocrisia del socialwashing agli esempi veri e vincenti di brand attivi per le tematiche socio-ambientali.
Allora un Marchio per considerarsi parte del Brand Activism, deve soltanto parlare di un tema sociale o ambientale sui propri canali? Sì e no. Ciò che si richiede oggi ai brand non è quello che in molti definiscono “buonismo”, ma di dire la propria, di schierarsi su temi importanti e dare un esempio. Il modo in cui essere d’esempio per la società può variare a seconda del brand stesso ma non per questo è più o meno valido, l’importante è che ciò che si comunichi sia coerente e continuo nelle sue attività.
Ci sono diversi esempi vincenti di brand activism, uno dei forse dei meno conosciuti è quello di Apple. Sapevi che il brand produce i suoi Mac con alluminio riciclato? Un chiaro posizionamento nell’attivismo ambientale da parte di un’azienda facente parte di uno dei settori più inquinanti di questo millennio.
Ma i brand non parlano soltanto di ambiente, come la notissima presa di posizione della Nike, per anni soggetta a critiche per sfruttamento minorile, negli ultimi anni sta dimostrando un riscatto sociale sempre più netto. Lampante il messaggio promosso durante le proteste per #blacklivesmatters, grazie alla scelta di Colin Kaepernick come protagonista in seguito alla sua squalifica per non essersi alzato durante l’inno nazionale in segno di protesta nei confronti di un Paese che non impedisce le discriminazioni razziali per le persone di colore.
Esistono iniziative di brand activism che includono anche l’Italia, come quella di Yves Rocher Italia che in occasione della giornata della terra condivide sui suoi canali social un chiaro piano d’azione che però… ha già completato! Mostra gli obiettivi ambientali che si era posta l’anno prima confermandone il raggiungimento. O ancora, in un contesto più piccolo, c’è l’iniziativa tutta trentina del “Tree Ticket”, un concerto in una pianura dove per assistere non dovrai comprare un biglietto ma piantare un albero proprio nello stesso terreno dove avviene l’evento!
Tuttavia sono italiani anche diversi casi di socialwashing, tra i più recenti ricordiamo quello commesso dalla Nazionale Cantanti che, dopo aver promosso messaggi di inclusività fino a produrre mascherine sanitarie che strizzano l’occhio alla gender equality, in occasione della Partita del Cuore allontanino una nota comica, Aurora Leone, dei The Jackal, dal tavolo dei giocatori in quanto donna.
La Leone, convocata appositamente per giocare specifica che non sia un’accompagnatrice dell’amico comico sottolineando anche che le è stato fornito perfino l’apposito completino da calcio. Tuttavia il Dirigente della nazionale cantanti non sente ragioni, invitando la comica a “non farsi spiegare perché non poteva sedersi lì” e cambiare tavolo oppure sarebbe dovuta andarsene. Ovviamente il noto gruppo comico non perde occasione di comunicare l’accaduto sui propri canali social che insorgono prontamente portando dapprima la Nazionale Cantanti a smentire il tutto per poi ricredersi e ripiegare facendo dimettere il Direttore stesso.
Ormai è evidente: non importa che prodotto tu vendi, importa che lo vendi nel rispetto dell’ambiente, dell’altro e di tutte le categorie della società, in un quadro di inclusione che andrà ad arricchire la tua reputazione. Chi non rispetta questi valori dimostrandosi incoerente, opportunista o ipocrita non verrà perdonato facilmente.
Ancora oggi la stessa Barilla lotta contro le accuse di Socialwashing di quando dichiarò che per lei esiste soltanto la famiglia tradizionale. Nonostante le campagne inclusive promosse, il ricorrere ad influencer della comunità lgbtqia+, gli utenti non riescono ancora a fidarsi.
Tu cosa ne pensi di questi casi? Conoscevi gli effetti del brand activism e del non rispettarne i valori? Hai altri esempi efficaci di Brand Activism da proporci? Scambiamoci idee e spunti da condividere insieme!
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